Dopo la prima parte pubblicata ieri, ecco la seconda parte del capitolo 19 del romanzo le nebbie del passato.
Il comandante di Montebello contemplava, come ricordava
il giornalista nel suo articolo, il classico metodo investigativo;
una sorta di scuola ricevuta nell’esperienza degli
interrogatori che, nel caso specifico in cui era impegnato,
consisteva nel mettere a confronto, uno di fronte all’altro, i
sospettati nel tentativo di creare discrepanze negli alibi; una
tattica concepita per farli cadere in contraddizione, che spesso
aveva dato dei buoni risultati. Era un colpo necessario,
prima dell’affondo decisivo, che nella peggiore delle ipotesi
avrebbe potuto aiutarlo a dimostrare che il suo intuito stava
seguendo la pista giusta. C’era, infine, da considerare che
tutto questo prodigarsi nelle indagini si potesse trasformare
nient’altro che in un buco nell’acqua, ma, perso per perso,
bisognava pur tentare; ma questa è l’ultima delle possibilità
che un buon investigatore deve tener presente. Una sorta
di ottimismo nelle indagini non guasta mai, è quasi d’obbligo!
“Maresciallo, il dottor Fortini al telefono!”, lo aveva
richiamato l’appuntato dal piano terra. “Passami la linea in
ufficio”, rispose rassegnato. Non c’erano dubbi che una
telefonata a quell’ora del mattino non poteva essere altro che
una conseguenza della pubblicità dell’articolo di giornale
che doveva aver dato fastidio non solo ai suoi superiori. E
come volevasi dimostrare: “Sì, sono il maresciallo Leonardi.
Buongiorno, dottor Fortini… Sì, l’ho letto. Che idea mi sono
fatto? Detto tra noi, un articolo sensazionalistico che cerca di
gettare discredito sul nostro lavoro. Come si dice: molto
fumo e poco arrosto. Nell’uso dell’attuale giornalismo, confezionato
ad arte per influenzare l’opinione pubblica. Per le
indagini, al momento, ci potrebbero essere degli sviluppi, ma
è presto non vorrei sbilanciarmi data la delicatezza della
situazione. Sì, le elezioni… Sì, lo so, da Roma… Se ci saranno…
Certamente, dottore… Come, non si è ancora ripreso?...
è sicuramente una freddura più fastidiosa del solito…
D’altronde anche a me… Quando si sentirà meglio, verrà a
trovarmi?... Sì, grazie dottor Fortini… Grazie, ancora!”. Era
il rincorrersi delle responsabilità che, per via gerarchica,
aveva da sempre interessato le forze dell’ordine e a maggior
ragione in quel frangente da clamore mediatico.
“Riccoboni, per favore”, si rivolse all’appuntato dalle scale,
“ho bisogno di riflettere! Da questo momento in poi non ci
sono per nessuno… Don Alfio, lei è in anticipo!”, si era trovato
davanti all’oste dello spaccio che aveva fatto capolino
ai piedi della scala che portava al suo ufficio. “Pensavo di
sbrigarmela in poco tempo… Maresciallo, oggi c’è il mercato
e…”, gli rispose, giustificandosi. “Sì, lo so, ma dobbiamo
aspettare anche gli altri. Un po’ di pazienza, è quasi ora, a
tra poco, don Alfio”. Richiuse nel rumore della porta a vetri
l’ufficio.
La fiamma del camino, grazie al lavoro paziente del
maresciallo Leonardi, sembrava riprendere vigore dalla
cenere della notte e rincuorare le tanto attese speranze di quel
mattino, che, per il graduato, avevano il sapore della rivincita
personale. L’orologio a pendolo dei monaci benedettini,
che rintoccava ogni quarto d’ora, segnava quindici minuti
alle dieci. “Riccoboni”, chiamò di nuovo il maresciallo.
Sempre dalle scale gli rispose l’appuntato: “Sì, maresciallo?”.
“Portami due sedie!”. E in risposta dal sottoposto ottenne:
“Sono arrivati il dottor Montini ed il notaio Ricarolis.
Che faccio, possono salire?”. “No, Riccoboni! Non è ancora
il momento! Mi fai sempre ripetere le stesse cose!
Aspettiamo, almeno fino alle dieci, il conte Alfredo”.
“Maresciallo!”. Lo spilungone dell’appuntato si era avvicinato,
risalendo impacciato le scale, fino a fermarsi davanti
alla porta del suo ufficio e aveva accennato: “Stanno bisbigliando
tra loro… e…”. “Non ti preoccupare, lascia fare”, gli
rispose sottovoce. “Si devono cuocere nel loro brodo”.
“Cosa, maresciallo?”. “Si devono cuocere… lascia perdere…
Falli aspettare!”. Ancora il clamore della porta che,
sbattendo, aveva fatto cadere un quadretto con una carica di
carabinieri a cavallo, prontamente raccolto e messo al suo
posto dall’appuntato.
L’orologio a pendolo dei frati cistercensi rintoccava
un’ora dopo le nove. L’odore della cravatta, pulita ed inamidata,
che consegnava al maresciallo la memoria di felici
ricordi dell’ultimo incontro a palazzo Almiranti, ebbe il
potere di distrarlo, momentaneamente, dal suo gravoso
compito.
Il rumore delle sedie ed i convenevoli tra persone giù
da basso, diedero la conferma dell’arrivo del conte che, nel
rispetto della puntualità, aveva spaccato l’ora dell’orologio.
Ancora una volta dalle scale si era sentita la voce dell’appuntato:
“Siamo al completo, posso farli salire?”. “Sì, adesso sì”.
“Signori, il maresciallo vi attende nel suo ufficio!”, si sentì la
voce dell’appuntato, inaspettatamente perentoria, dal basso. Il
primo a far gioco nel movimento delle scale fu il conte, tallonato
dal dottor Diotallevi che si frapponeva, a protezione, tra
il signore e quella strana processione; dietro, gomito a gomito,
il sindaco Montini ed il notaio Ricarolis, che continuavano
la conversazione personale, di cui non abbiamo notizia; ed
infine, a degno corollario, don Alfio con, sotto il pastrano, la
camicia da lavoro che ne infagottava la figura; in coda, l’appuntato
Riccoboni con il suo passo dinoccolato che slittava, a
due a due, sugli scalini - e che portava le sedie mancanti per
far mettere seduti gli ospiti - chissà perché, per lui, sempre
sdrucciolevoli. Il maresciallo, che si faceva ammirare in piedi
davanti alla scrivania con le braccia incrociate dietro la schiena,
seguiva il comporsi della scena.
La legna umida, che scoppiettava nel camino, dava
quel tocco di piacevolezza alle fredde mura dell’ufficio.
Le nuvole ad oriente avevano completato il percorso
sopra il paese di Montebello. La piazza, era il giorno del
mercato, si animava delle bancarelle e delle grida degli strilloni
da banco che reclamizzavano il loro commercio. Nel
frattempo, il maresciallo sempre in piedi, aveva cercato di
regolare i movimenti. “Conte, prego sulla destra. Sì, sotto la
finestra… Avrà più luce!... Dottor Diotallevi, qui accanto al
conte… Prego, dottor Montini… Sì, vicino al camino, si
sentirà al caldo… Notaio, grazie… e lei, don Alfio… Sì, lì
può andare bene!... Grazie…”. Gli ospiti avevano seguito,
senza proferir parola, quella buffa attribuzione di sedie.
Riccoboni, che si era sistemato in un angolo della stanza
dove si trovavano un banchetto ed una sedia - minuscole per
le sue proporzioni - controllava che tutto fosse al suo posto.
Sopra quel ridicolo perimetro, un calamaio, una penna e fogli
bianchi immacolati facevano bella mostra davanti all’adunanza
pronta a formalizzare le dichiarazioni. Troppo lontano
da Montebello si trovavano le moderne facilonerie del
Comando provinciale; ogni luogo si doveva arrangiare con
quello che aveva, e questo possedeva il Comando di
Montebello. “Signori, innanzi tutto, vorrei scusarmi”, aveva
iniziato a parlare il maresciallo, “per l’ora insolita e capisco
che ognuno di voi ha dei doveri da compiere nella nostra
comunità, ma…”. Quel discorsetto recitato a braccio, che
poteva sembrare un inutile panegirico, lo aveva preparato da
giorni ed era un tentativo per distendere gli animi, che, da
subito, erano parsi, logicamente, contrariati. Non si trovavano
alla presenza di un pubblico ufficiale? E per giunta, un
maresciallo dei carabinieri? A chi non avrebbe pulsato il sangue
nelle vene, anche se innocente? Un brusio da commento
si era librato nell’aria. E poi la voce, pungente, del notaio
aveva catturato l’attenzione. “Mi auguro, maresciallo, che
avrà le sue buone ragioni…”. “Me lo auguro anch’io! Il conte
stamane attendeva degli ospiti, una delegazione della araldica
ufficiale, per discutere, ascolti bene, le linee di discendenza
del casato. S’immagini l’importanza!”. Era il portavoce
della nobiltà, adesso, a dispensare pillole di saggezza. “E le
elezioni? Vogliamo trascurare un capitolo importante della
società. Stiamo preparando il palco per il discorso d’apertura
della campagna elettorale del senatore Tagliaferri. Viene ad
esporre il pensiero del governo di Roma”. A parlare era quell’ipocrita
del sindaco Montini che, con le gambe incrociate,
s’ingegnava a gettare benzina sul fuoco; ma con il maresciallo
Leonardi si correva il rischio di rimanerne scottati. “E lei,
don Alfio, non ha nessuna rimostranza…”, chiese ironicamente,
il titolare dell’inchiesta per stemperare il risentimento
che stava covando nell’ufficio, “…da far valere? Dato che
tutti si sono lamentati non vorrei che a lei tutto questo
andasse bene”. “No, nessuna, ma spero che per l’ora di pranzo
sia tutto finito. Oggi è la giornata del mercato…”, rispose,
guardandosi intorno come se avesse bisogno di conferme;
era uno sguardo pieno di dubbi. “E giustamente gli affari
sono affari, non è vero, don Alfio? Adesso”, le problematiche
di don Alfio le aveva rivolte ai presenti, “non vi preoccupate;
vedrete che finiremo molto presto, ma per questo è necessaria
la vostra collaborazione…”. Poteva interpretarsi come
una minaccia? Possedeva il nome del colpevole e sapeva
come smascherarlo? Oppure il suo era, in realtà come doveva
essere, un invito a esprimere serenamente la versione dei
fatti? Il mondo si può rappresentare dai più diversi punti di
vista, anche se, apparentemente, alla maggior parte delle persone
sembra uguale.
“Iniziamo… vediamo… Sì, da lei, don Alfio… Dunque…
Scusate, signori!”, aveva interrotto il fastidioso mormorio di
sottofondo. “Sei pronto, Riccoboni?”. “Sì, maresciallo!”.
Teneva la penna, il povero appuntato, come uno scolaro
della prima classe intento a scrivere un dettato. Il
Comando provinciale, ed era una vergogna, non aveva ancora
inviato una decente macchina per scrivere su cui esercitarsi;
ma comunque non era un valido motivo per poter fermare
il corso di una indagine. “Dunque, don Alfio, erano le
nove di sera quando ha scoperto il cadavere del compagno
Olmo?”. Era riuscito, finalmente dopo ripetute interruzioni,
ad arrivare alla domanda cruciale che voleva fare. Il conte,
dalla posizione privilegiata in cui si trovava, sembrava disinteressarsi
alla conversazione ed indugiare, distratto, con lo
sguardo fuori sulla piazza che, nonostante il gelo di quel
giorno, era stracolma di paesani. Il dottor Diotallevi, al contrario,
si mostrava risentito con quell’atteggiamento sulla
difensiva che, ormai, era diventato una espressione del viso
tanto ne aveva abusato e che doveva dar fastidio al nobile
stesso. Il dottor Montini ed il notaio Ricarolis, uno accanto
all’altro, sembravano prendersi gioco dell’appuntato che,
sottovoce, era intento a ripetere ciò che scriveva.
Don Alfio, così corpulento, sudava al calore del camino
che bruciava nella fiamma viva di un grande ciocco e
forse non solo per quello. “Sì…. Erano le nove di sera, maresciallo”,
rispose timidamente. “Perché ne è tanto sicuro, don
Alfio?”. La risposta del proprietario dello spaccio, che era
nell’aria, trasmise l’idea che il suo pensiero fosse costruito a
priori. D’altra parte era la domanda che il maresciallo doveva
inevitabilmente fare proprio a lui che era stato lo scopritore
del cadavere del compagno Olmo. “C’era stata poca
gente quella sera allo spaccio. Abbiamo chiuso molto presto…
Lo può testimoniare la signora Maria che mi ha aiutato
a fare la chiusura prima di andare a casa e, siccome avevo
tempo, ne ho approfittato per andare, prima del solito, al
frantoio… Avevo un appuntamento per il giorno dopo, ma il
destino ha voluto che io quella sera non lavorassi…”. Il
ricordo dello spaccio, senza la signora Maria che serviva tra
i tavoli, tornò prepotentemente e con esso i dubbi sulla versione
che aveva dato don Alfio. “E poi, don Alfio, si è avviato
al frantoio di buon passo?”, riprese il maresciallo Leonardi,
dando per assodata la versione che aveva dato
Continua…
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